Considera ogni errore che compi
come una risorsa.
P.J. Meyer
È uno dei tarli che minano la nostra voglia di impegnarci, fino a toglierle potere, a sfibrarla, a trasformarla in
inerzia rabbiosa o rassegnata. La
paura di sbagliare agisce così: erode la nostra determinazione senza che ce ne accorgiamo.
Poco conta se l'idea di prendere lezioni di russo ci entusiasma, la prospettiva di un nuovo incarico al lavoro ci stimola o quel corso di teatro risveglia energie che da troppi inverni credevamo in letargo. Il
fantasma dell'errore conosce il modo di inchiodarci alla linea di partenza: sa come agitare le ombre che raffreddano la passione e rendono impacciati i nostri gesti.
Possiamo cominciare a ridimensionare il timore di sbagliare innanzitutto inquadrando l'errore in una cornice di senso diversa da quella a cui siamo culturalmente e socialmente abituati.
Prima però dobbiamo conoscere i
meccanismi che creano e alimentano la nostra paura.
Come nasce e cresce la paura di fallire
Il
timore di sbagliare ha due grandi alleati: la memoria selettiva e il culto della prestazione perfetta.
L'autosabotaggio della memoria selettiva
La memoria è per sua natura selettiva. Ma ci sono casi in cui il ricordo pesca nella nostra storia soprattutto le
esperienze che percepiamo come sconfitte.
È un filtro doppiamente truccato. In primo luogo perché le sue maglie, troppo larghe, raccolgono solo alcuni momenti topici della nostra vita: quelli in cui ci siamo sentiti piccoli e inadeguati e che il nostro vissuto emotivo carica di significato. Viceversa gli
episodi di successo, le occasioni dalle quali abbiamo imparato ad
adattarci creativamente alla nostra fetta di realtà, tutte le volte in cui siamo riusciti a superare gli ostacoli e a guadagnare terreno sono come polvere dorata: pepite preziose, ma che siamo i primi a sminuire. E la griglia della memoria nemmeno prova a trattenerle.
Il secondo vizio di forma è la lente soggettiva che nel ricordo legge e interpreta i fatti.
Siamo a un tempo il giudice, l'imputato e la giuria. Il giudice emette la sentenza senza tener conto delle circostanze, senza ascoltare i testimoni e senza ammettere attenuanti. Sotto accusa non è il nostro comportamento (quell'azione specifica, che allora si espresse in un modo ma che ha infinite possibilità di compiersi altrimenti), bensì il nostro essere: siamo “incapaci”, “deboli” oppure “lenti”, “stupidi”, “passivi” . Difficile scampare a un processo del genere. É l'emblema dell'incostituzionalità.
Il falso mito della performance ideale
Un altro grande amplificatore dell'errore è il
principio di prestazione che domina la nostra epoca. Dall'allenamento in palestra al canto nel coro cittadino, dal discorso in pubblico alla gara per i migliori cupcake: qualunque sia l'impresa non ci concediamo sbavature, né aggiustamenti o incertezze. Il nostro "fare" deve obbedire al culto della performance.
Ora, in un mondo iperconnesso, dove i social moltiplicano in un infinito gioco di specchi la logica del confronto, ciò che
possiamo fare sembra non avere più limiti, almeno in linea teorica. Né vale, a mo' di guida e confine, l'ispirazione che prima veniva da coloro che riconoscevamo come maestri. Oggi tutto è possibile e accessibile a tutti, nell'orizzontalità del tempo reale. Così, in un rilancio continuamente esibito della prestazione, dove tanti corrono a postare quanto sono più bravi degli altri, c'è chi finisce con il
sentirsi bloccato.
Come cambia l'errore se cambiamo il nostro sguardo
Per
superare la paura di sbagliare, nel counseling si lavora sui pensieri, sulle emozioni e sulle sensazioni. Ognuno ha la sua storia e nei colloqui, grazie all'
accompagnamento del counselor, trova la propria via di uscita.
Il primo passo per
togliere un po' di peso al concetto di errore, però, lo possiamo fare anche da soli, innanzitutto cambiando punto di vista. Se guardiamo all'errore in modo diverso, riusciamo anche a mitigare i sentimenti poco gradevoli che proviamo quando ci censuriamo di fronte a una situazione nuova: non esprimiamo quel che vorremmo dire, lasciamo languire in gola una domanda, evitiamo una scelta per timore che la nostra mossa non sia quella giusta.
Ci sono almeno
tre modi efficaci per ristrutturare l'errore e recuperare la voglia di osare.
1. Vedere l'errore come prova per l'intelligenza
Il verbo da cui deriva la parola errore è errare, che etimologicamente significa “andare vagando, senza sapere dove”.
Il viaggio è la metafora da cui prende corpo l'errore. Per gli antichi, il verbo errare – nella duplice accezione di mettersi in cammino e di sbagliare – non presentava la connotazione vagamente moralistica che oggi tendiamo ad attribuirgli. Basti rileggere il proemio dell'Odissea.
L'eroe dal multiforme ingegno, cantami, o Musa,
che molto errò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
e molto patì sul mare nell'animo suo,
per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Omero, nel presentarci Ulisse, disegna questo archetipo dell'Occidente attraverso due immagini-chiave. La prima è quella dell'intelligenza (l'armatura dell'eroe è il suo ingegno), la seconda è l'errare: un andare che non ha una meta né un ritorno garantiti e che si espone al naufragio.
L'errore non solo è messo in conto, ma diventa anche il mezzo attraverso il quale si sviluppa la conoscenza, una conoscenza che è geografica (i mondi) ed empatica (le menti degli uomini). Grazie al viaggio costellato di errori, Ulisse conquista la sua terra e si reinstalla da protagonista nella sua vita. Difficile pensare a Ulisse come a un performer fallimentare.
2. Considerare l'errore come passo in avanti verso l'obiettivo
Dai classici all'industria. Thomas Edison fu un inventore e un imprenditore. A lui si deve il miglioramento della lampadina, di cui Edison prolungò la durata e che produsse su scala protoindustriale. Sembra che 2000 tentativi andati a vuoto precedettero la realizzazione del modello “riuscito” e che, nel corso della conferenza stampa di presentazione del prototipo, un giornalista chiese a Edison come si fosse sentito a
fallire per ben 2000 volte. La risposta, stando alle cronache un po' inquinate dall'aneddotica, spiazza per ironia e verità: "non ho fallito 2000 volte, ho scoperto 2000 modi in cui non va fatta una lampadina".
Anziché essere inquadrato come una prova mancata,
l'errore viene inteso come un passo di avvicinamento al traguardo. Un cambiamento di visione che ha effetti potenti sugli stati d'animo: pensare di aver collezionato 2000 fallimenti può portare a frustrazione, tristezza, rabbia, depressione. Cogliere di aver fatto 2000 progressi verso la meta ci fa sentire capaci, tenaci, competenti.
3. Valutare l'errore come apertura alla creatività
Ben prima della didattica postmoderna, Gianni Rodari aveva intuito che la lezione calata dall'alto è meno efficace di quella in grado di modellarsi sullo stile del pensiero dell'allievo e diventare esperienza concreta, brano di vita vissuta, narrativa personale in cui
l'immaginazione feconda le parole. Celebre, tra i tanti, l'esempio dell'errore di un bambino che scrisse cassa invece di casa. Il pedagogo Rodari scelse di non correggere l'ortografia, ma di invitare quel bambino a
raccontare la storia di un uomo che viveva in una cassa.
L'inciampo si trasforma in un'esca per arrivare, con il proprio passo, non solo alla comprensione intima del senso e della differenza, ma anche alla liberazione di sorgenti creative che l'immediata eliminazione dell'errore avrebbe lasciato inespresse. È cosí che "sbagliando si impara".
Nell'errore si producono nuovi modi di vedere e si costruiscono ponti. Si può arrivare persino a immedesimarsi con gli uomini che oggi vivono davvero un pezzo di vita in "casse" e in quelle casse cercano la speranza di un approdo solidale, lontano dalla propria casa.
C'è poi un altro modo di
rivalutare l'errore. Lo descrive molto meglio di quanto potrei fare io il geografo ed esploratore
Franco Michieli in questo video.
La prossima volta che saremo tentati di riesumare il
fantasma della paura di sbagliare, ricordiamoci che l'errore è anche strumento di conoscenza, progresso verso la meta, porta aperta sulla creatività.
E quando crederemo di aver perso la rotta, proviamo a chiederci anche solo per un attimo se la strada su cui ci troviamo non sia per caso una strada buona per noi.