
Amy Winehouse canta in sottofondo, mentre raduno i pensieri per un progetto di counseling di gruppo destinato a giovani e giovanissimi. La voce di lei, in bilico tra graffio e carezza, nera come la chioma che l'ha resa così riconoscibile, intona “Back to black”, il suo brano più famoso. Se parafrasiamo il titolo di questo pezzo, insieme armonico e cacofonico, possiamo tradurlo con “Indietro, nel buio” e il tutto suona come il canto del destino di Amy Winehouse. La sua vita è una stella che si consuma, che implode a poco a poco, fino a morire, a 28 anni. Quando uscì il disco, la Winehouse era poco più che un'esordiente. Una promessa di origini modeste. Ma se la sua fisicità manteneva le distanze da quell'icona del disfacimento che abbiamo visto alla fine, la scrittura dell'anima trasferita nei testi delle sue canzoni era già un manifesto del dolore.
Sappiamo che certe persone nascono con una dotazione interiore nei confronti delle sfide della vita meno compatta e flessibile di quella che sembra premiare altri. La biologia tesse più di un filo nella trama di cui siamo fatti. Poi c'è l'impronta dell'ambiente, l'humus in cui germinano le prime esperienze relazionali. L'ordito della cultura si sovrappone così alla natura e insieme cuciono il vestito pubblico che, mentre parlerà di noi, coprirà il segreto capace di farci sentire unici e al contempo vulnerabili e nudi: irrimediabilmente esposti.
Non so come sia stata l'infanzia di Amy Winehouse. So però che la nostra prima casa può accogliere, e così compensare qualche fragilità costituzionale, oppure può respingere, approfondendo le crepe e facendo traballare l'edificio della stima di sé. Tra i due estremi dell'accettazione incondizionata e del rifiuto, infiniti gradienti a modulare lo spazio in cui muoviamo i nostri primi passi nel mondo. Qui regole e affetto possono farsi dialoganti, e allora collaborano nell'orientare l'embrione della personalità verso sponde identitarie sempre più solide. Ma possono anche confliggere o abdicare alla fatica di una sincronia tanto difficile quanto necessaria. In questo caso, la partita della crescita inizia con uno svantaggio che bisognerà cercare di recuperare per via.
Nella storia di Amy Winehouse, la biografia della persona si confonde con la mitologia del personaggio. Accade a tanti altri giovani eroi vinti del rock, una musica di gioia esplosiva e di ripiegamenti dolenti. A ben ascoltarlo, il grido ribelle convive quasi sempre con un'eco nostalgica, anche di quel dondolio – il significato originario del termine rock- che è la traccia impressa nel corpo dalla prima cura, quando la voce e le braccia di nostra madre cullavano e acquietavano, accompagnandoci nel sonno.
Per chi ha fama e successo, soprattutto se acquisiti in un'età ancora acerba com'è capitato alla Winehouse, riuscire ad abitare la zona neutra dell'intersezione tra vita e arte, tra quotidiano ed eccezionale è impresa ardua. Con piccole varianti di questo scenario fanno spesso i conti tanti giovanissimi, che i social rendono celebri o impopolari in un click; ragazzi che hanno tanto o pochissimo denaro e scarsi riferimenti per misurarne il potere. A loro sarebbero richiesti solidità emotiva, discernimento e mani salde a governare il timone. Tutti requisiti che spesso mancano anche a noi, che magari veleggiamo in acque più tranquille.
A complicare la navigazione ci sono poi in molti casi una sensibilità troppo porosa, acutamente selettiva verso ciò che fa male, e una altrettanto tenace resistenza a lasciarsi avvolgere dalle cose belle che accadono e che potrebbero forse bilanciare certe percezioni. Al fondo, lo sforzo di accettare se stessi, inevitabilmente imperfetti. Come tutti. Queste cifre compaiono nell'alfabeto intimo di tante adolescenze. Lo tengo presente mentre proseguo nella rilettura critica del mio laboratorio di counseling giovanile e provo a trasformare le idee grezze in contenuti da proporre.
Il brano inanella le note conclusive. Io ripasso i punti del mio lavoro e mi serve davvero ricordare che, talvolta, per salvarsi dalla deriva bisogna saper accogliere ciò che non quadra, senza rinunciare alla luce in cui l'imperfezione si rende visibile. Tenere la barra dritta significa tollerare le nostre e altrui asimmetrie, derogare al sogno di attingere l'assolutamente vero per accontentarci delle porzioni di verità che, in quanto esseri umani, riusciamo a lambire.
Perché la barca non cozzi contro scogli imprevisti, occorre poi aver pratica del limite e persino lottare per farlo risorgere là dove logiche fluide e troppo permissive sembrano eclissarlo.
Tanti ragazzi chiedono proprio che qualcuno opponga un freno alle loro ascese accelerate: che ci si interessi abbastanza a loro per dire “no”.Se non riconosciamo ciò che ci limita, d'altronde, non solo non riusciamo a escogitare manovre preventive di aggiramento dell'ostacolo, ma non possiamo nemmeno esercitare la libertà, perché senza un argine non c'è scelta. Resta solo la promiscuità anonima e narcotica delle esperienze.
I giovani cercano e sono disposti ancora all'impegno e ancora sperano, persino nel momento in cui la tensione ideale in loro sembra fiaccarsi e lasciare il posto a un'ostentata apatia. Me lo ripete spesso mia sorella, appassionata insegnante, nel condividere con me qualche stralcio di vita scolastica. Sopravvive nei ragazzi, anche quando cadono, una prodigiosa capacità di automedicazione.
Spetta a noi adulti risvegliare e indirizzare questa risorsa, affinché la spinta che porta indietro, nel limbo dei tanti significati a cui il buio del brano di Amy Winehouse allude, sia superata dall'apertura al futuro. Un luogo dove molto è ancora costruibile, plasmabile, migliorabile e la melodia dell'anima può conoscere anche note in maggiore.
Back to black è terminato da un pezzo e io decido di chiudere il mio progetto con un lavoro sulla musica. Che parli ai giovani e che li lasci parlare. Che li ascolti e che insegni, con la leggerezza capace di farsi seria quando è il caso, anche ad ascoltare e ad ascoltarsi.